Notte e poi giorno, una gran fatica. Tutto uguale, e io ero stanco, profondamente stanco. Mi vedo allo specchio di cameretta e mi dico: – Tu non sei Giovanni. Tu devi andartene!
Andarmene dove?, mi sono chiesto, ma non mi importava. Ero stufo della vita, che aveva assunto una forma inagguantabile. Il pieno non riusciva a darmi granché – avevo bisogno di vuoto. Vaffanculo allora.
Mangiare male e dormire male.
La luna sembrava non esserci l’ultima notte passata nella mia stanza – quella stessa stanza dei tagli sullo stipite della porta, del bacio provato sul gomito e poi della sega numero uno, sigarette sotto le lenzuola macchiate di inchiostro per tatuaggi fatti molto alla mano (ago da cucito & china per disegni tecnici), sega numero due e tre, poi baci e abbracci di madre sola, amiche arrapate, sega numero mille, calzini incrostati, musiche da casse gracchianti, mai una ragazza, mai un amore, solo sogni bagnatissimi e adolescenza diciamo, e noia, e solitudine, ma mai per davvero. Avevo bisogno di scappare, da me e dalla compagnia imperterrita dei miei pensieri. Dalla costanza. Dall’inconsistenza. Da quella stanza – dove cazzo ho messo il Valium?
Ho deciso che sarei salito su un pericolosissimo aereo per scappare. Da cosa?, non lo sapevo. Gli aerei mi fanno troppa paura.
Sono entrato per primo e la cabina era vuota e senza ossigeno. Gli schermi mostravano lo stesso mondo in ripetizione, con la figura di un aereo gigante, sproporzionatissima. Ho preso il mio posto, e speravo in un vicino di viaggio decente – età nella media, circonferenza del corpo nella media. Si è seduto un bel tipo, un po’ in là con gli anni per i miei gusti, ma senza dubbio se mi avesse proposto di toccarglielo sotto la coperta infeltrita dell’aereo, beh, non avrei esitato. Lascio stare. Mi sono addormentato alla quinta goccia di Xaxan – grazie mamma! –; mi ha svegliato la hostess ad aereo atterrato. Mi ha detto: – Bienvenido en Mexico!
Vedi, non è lontano.
Ho ringraziato ancora stordito dalle gocce. Ho preso le mie cose e sono fuggito dalla dogana, dai chiostri del cambio dinero, dalla puzza di cessi igienizzati e caffè bruciato per ritrovarmi in un taxi immerso in luci e fumi e strade altissime come gli ultimi piani dei palazzi. Tutto era enorme intorno a me. Io, piccolo e solo. Un sospiro di sollievo prima di scendere e toccare l’asfalto che, malgrado fosse notte fonda, era bollente. Davanti a me c’era un edificio celeste, e un portone che diceva “61”.
Respiro e sento lo smog, come se vivessi in una Malboro Gold.
La mia stanza aveva 4 pareti, e questo fatto mi ha fatto stare bene. Mi sono sparato una sega pensando al vuoto.
Il cellulare funzionava alla perfezione. L’internet era stato inserito.
Avevo un contatto là e non lo sapevo. Si chiamava @cose.buone.ma.poche, un tipo italiano, veneto di Venezia, con quel suo accento che a tratti mi sembrava pure scemo, ma era un caro tipo, pacato e gentile, conosciuto anni prima in una tinderata inutile e gay finita meglio del previsto, a mangiare lupini in un cinema di periferia nella bassa Padana. Lui avrebbe voluto farmi una sega, ma l’intervallo lo aveva colto di sorpresa.
Appena atterrato avevo pubblicato di sfuggita una mia foto su X, poco prima di salire sull’ultimo vagone della metropolitana, nel primo giorno di visita a Città del Messico. Dopo giuro qualche minuto mi è arrivato un commento: – Sei a CDMX?
Era @cose.buone.ma.poche. – Proprio così! – gli ho risposto.
– Io pure, vediamoci.
– Daje, okay – gli ho detto.
– Parli spagnolo?
– Uh, no!
– No Problem! Stasera mi becco in un bar nella Roma con un mio giro di qua, e c’è anche un altro tipo italiano quindi top! – Poi, @cose.buone.ma.poche mi ha confermato l’indirizzo e ci siamo organizzati per l’orario: gli ho proposto alle 7 – mi sembrava un orario giusto. Mi ha risposto che alle 5 sarebbe stato meglio.
– Perché mai? – mi sono detto.
Appena ho lasciato il telefono, ho sentito un forse senso di malessere – ansia perlopiù. Ho preso quindi due gocce di Xanax e ho dimenticato i miei pensieri. Mia madre più volte mi ha chiamato, e ho deciso di non risponderle. Ho camminato per le strade, perdendomi. La città non era quello che mi aspettavo – ma d’altronde, non è che mi aspettassi molto.
Torno nella mia stanza e mi metto a riempire qualche pagine delle mie confessioni – e queste erano le parole che stavo scrivendo – per dare un senso al mio viaggiare. Dare un senso – perché doveva pur esserci, un senso – al mio stare.
Fumo.
Quattro pareti, come deve essere una stanza; una finestra, un letto da una piazza e mezzo, una lampada, che ogni tot flashava di un brillante più chiaro. Sentivo il vuoto attorno a me, e la potenzialità che ne derivava. Riempire quel vuoto. Con che cosa?, non mai importava. Qualcosa di nuovo. Ho guardato l’ora ed ero in ritardo: @cose.buone.ma.poche mi aspettava, e io non aspettavo altro. Vivere, no? Riempire il vuoto. Con che cosa?, lo avrei scoperto prima del previsto.
Non mi voglio far sentire.
(Mi nascondo).
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