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28 marzo 2023, Aldilà

  • Immagine del redattore: Alberto Eugenio Liboni
    Alberto Eugenio Liboni
  • 27 mar 2023
  • Tempo di lettura: 4 min

L’ora precisa della mia morte non lo so. Ho scoperto, una volta che si

muore, che si perde la facoltà di leggere, un po’ come quando si sogna.

Quindi non mi è stato possibile capire il fascicolo che il medico legale ha

lasciato distrattamente sul mio letto d’ospedale. Una volta finito tutto, tutto

ha incominciato ad apparirmi sfocato, come se i miei occhi – che

obiettivamente non avevo più – si avvolgessero completamente di una

patina di latte.


Peccato. Davvero un peccato.


Questa faccenda, e cioè il fatto di non saper l’ora precisa in cui sono

morto, mi fa star molto male, forse più del fatto stesso di essere morto,

avendo io da sempre l’ossessione per gli orari.


Tutto deve – o meglio “doveva”… Ancora devo far l’abitudine con un me

descritto al passato –, iniziare o finire a orari pari o multipli di cinque. Se

non succede – succedeva… –, non dico che do di matto o altro, ma mi

sento sicuramente meno felice di quando, invece, capita l’opposto. Qualche

esempio: le ore 8:00 sono perfette per una sveglia presto, magari per una

passeggiata o una lezione di yoga, che ne so… Oppure 12:05, “vediamoci

per un Campari in centro”. Benissimo. Devo dire anche le 16:02

funzionano, per un appuntamento in libreria o una scopata pomeridiana:

in tutta sincerità, i multipli di cinque erano i migliori, quelli che ho sempre

preferito e prediletto, ma insomma, anche i numeri pari vanno bene, non

avendo la presunzione di pretendere la perfezione. O quasi.


Il giorno che sono morto, che è un oggi ma nel passato, è pomeriggio, sto

in macchina da solo nella via di casa, e sto ascoltando alla radio le ultime

notizie per rimanere concentrato alla guida: questo deve necessariamente

significare che l’orario si avvicina all’ora spaccata, senza purtroppo la

certezza della divisibilità per cinque o due. Vivrò – si fa per dire – per

sempre con questo dubbio: insormontabile, insopportabile…


Oltre al non poter leggere e avere la vista appannata, un’altra cosa che ho

appreso una volta morto, ma per questo c’è voluto più tempo – appunto! –,

è che il tempo tende a non esistere, e di conseguenza, non c’è la possibilità

di misurarlo. Stai pur certo che se muori con un orologio al polso – cosa

che io avevo, sempre –, di colpo questo scompare. E non è che qualcuno o

qualcosa te lo frega o altro. Da quello che mi è parso di capire, origliando

qua e là, è che quando si muore si deve perdere necessariamente tutte le

superfetazioni inutili della vita in terra, le sovrastrutture, gli aggeggi, arzigogoli. Non ti può rimanere nulla che te stesso. E per me, che con me

stesso non è che abbia mai avuto un grande rapporto, tutto ciò mi risulterà

insopportabile, insormontabile.


Mi viene poi da riflettere, e insomma mi va proprio di capirlo, come mai la

vita debba essere vissuta in avanti e non all’indietro, rimangiandosi gli

errori fatti piuttosto che farli. Sarebbe bello che mi venisse spiegato come

mai non mi sia stato detto fin da subito dove sarei andato a finire, che cosa

avrei fatto e cosa non sarei riuscito a fare, piuttosto che lasciarmi

abbandonato a me e al mio corpo umano. Vorrei sapere poi una serie di

altre faccende che riguardano l’amore, che davvero non è possibile che si

sta una vita intera, un tempo incalcolabile di secondi e attimi, a cercare di

completarsi e magari quando questo succede, ecco che ti viene tolto corpo

e passioni, via, finito, senza possibilità di reclamo. Vorrei sapere anche

come mai, in questo momento, perso nei miei ricordi e un po’ stranito

dall’essere un’anima vagante nel vuoto cosmico, ho l’impressione che la

vita sia più ingiusta della morte. Molto di più. Ma che per entrambi i casi,

forse, è solo un fatto di abitudine e di rimboccarsi le mani.

Ma non ci pensiamo, tiriamo avanti: ci sono un sacco di cose che ancora

devo imparare, che da quello che ho capito mi dovranno insegnare. Non so

chi, non so come. Per adesso mi ritrovo in una nebbia calda e accogliente,

con un corpo assente, smaterializzato, e con davanti a me da ripercorrere i

ricordi di questa vita appena sfumata, la mia, una vita che è valsa la pena

aver vissuto, per quel tempo che mi è stato concesso, non so da chi o da

cosa – magari lo stesso o la stessa che mi insegnerà tutte le faccende da fare

qua. Quei ricordi, i miei, sbocciano come fiori di loto in uno stagno,

riaffiorano come balene che sbuffano, saltano come grilli in praterie piene

di luce, sono colori immensi e mai detti, sono pezzi di corpi astrali, poi

umani. Diventano ora gocce di sudore di un bambino che gioca a palla,

solo in un parco di provincia, sotto fumi di una fabbrica di nuvole.

Quei ricordi sono similitudini troppo terrene, che pian piano dovrò trovare

la forza di dimenticare. Quei ricordi li vedo adesso apparire davanti a me,

in un volo a bassa quota, profumato di aria marina e cardamomo.

Sono nato e morto lo stesso giorno, il 28 marzo – data di nascita di Lady

Gaga e del tiktoker Calendar Coffee, e tra le altre cose, la giornata

mondiale dell’endometriosi che comunque è molto importante. E mi è

stato detto da queste parti che chi nasce e muore nello stesso giorno avrà

gloria eterna, che in vita è stato un uomo puro ed è riuscito a chiudere il proprio ciclo perfettamente. Credo sia una gran stronzata. Non mi sento

ne puro ne tanto meno che sono riuscito a chiudere nessun ciclo, anzi.


Questo è lo scopo di quello che viene dopo, delle parole che seguiranno:

chiuderlo finalmente quel ciclo, il mio.

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